Lungo la costa dell’Africa che si affaccia sul Golfo di Guinea, tra Togo, Bènin e Ghana, Mami Wata è considerata un vodu che vive nelle acque dell’oceano. E’ la “sirena”.
Ma Mami Wata, è nomade e la si può trovare in molti altri paesi africani, nei Carabi, in Brasile e anche in Europa. Molte sono le sue identità e notevole la sua capacità di metamorfosi e adattamento: regina delle acque, dea della fertilità, avida accumulatrice di denaro, vanitosa e dispettosa despota nei confronti dei suoi adepti, sirena, incantatrice di serpenti, donna e uomo, ammaliatrice, prostituta e amante gelosa. Mami Wata è “moderna”, straniera rispetto ai luoghi che la ospitano, viaggiatrice ed esotica, promessa di una felicità ineffabile ma sempre più seducente.
Mami Wata incorpora le ambiguità dell’essere umano e della società contemporanea, promessa di ricchezza e minaccia di morte. Secondo i suoi adepti, vive in una bellissima e futuribile città situata nel fondo del mare, ma accettare il suo invito ad abitare la città invisibile, significa accettare di abbandonare la propria vita, la materia della propria esistenza e venire trascinati per sempre nei neri abissi dell’oceano. Firmare un patto con lei può assicurare il successo e la ricchezza ma il prezzo da pagare può essere molto elevato.
In ogni contesto locale Mami Wata assume significati differenti, soprattutto quando si integra nei sistemi e nelle pratiche religiose. Nella bassa Guinea, la cultura materiale che circonda il culto di Mami Wata è ricca e opulenta. Gli altari, gli affreschi, le decorazioni del corpo, gli abiti e le collane incorporano l’auspicata ricchezza e la necessaria bellezza, propria alla divinità. Le “mamissi” (adepte di Mami Wata) periodicamente portano al mare le loro collane perchè, bagnate nell’acqua, possano purificarsi e caricarsi spiritualmente. Il mare diventa quindi, in queste pratiche rituali, sorgente di potere rigenerante, di prosperità, di ricchezza e di benessere. Ma le immagini di morte che il mare evoca restano sempre latenti, pronte a riemergere, come sanno le adepte che, in trance, si buttano nelle onde, catturate dalla divinità che cerca di trascinarle con sè in fondo al mare.
L’esposizione si incentra sulla figura di Mami Wata, ma non si limita a questo trattando più in generale il tema del vodu in Africa.
L’area culturale di riferimento è quella dei Guin-Mina del Togo e del Bènin; da lì provengono gli oggetti di culto e gli ornamenti di decoro corporale, le collane che gli adepti indossano in occasione delle cerimonie e alle quali è dedicata una sezione della mostra. Composizioni metalliche di un artista togolese introducono il visitatore all’immaginario vodu, culminando in un ampio assembramento di manichini come in una moderna “installazione”. A corredo del tutto, manifesti del cinema africano contemporaneo che rimandano al mondo degli spiriti tradizionali ed infine una selezione di film etnografici. Infine, una sezione della mostra è dedicata ad oggetti del vodu brasiliano, il candomblè, appartenenti alle collezioni del Museo degli Sguardi.
L’iniziativa è il risultato della collaborazione tra il Museo degli Sguardi di Rimini e il Centro Studi Archeologia Africana di Milano.
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