Un altare “installazione” vodu

di G. P.

Sito foto 45

Nei pressi di Agomé-Seva, in Togo, dove il fiume Mono fa da confine con il Bénin (foto 1) esiste da tempo immemorabile un grande altare all’aria aperta dedicato al vodu Dagbazin. Il vodu Dagbazin è uno spirito serpente (Dan) al quale ci si rivolge per chiedere e fare delle promesse. E’ in relazione con l’aria, gli alberi e la terra e lo si invoca configgendo picchetti nel suolo.

Il prolungato esito di queste pratiche ha creato un luogo straordinario, una collina infissa di migliaia di picchetti, una sorta di moderna “installazione artistica” (foto 2, 3 e 4). La gran parte dei picchetti sono semplici pezzi di legno ma talvolta assumono tratti naturalistici di figure umane (foto 5).

In quel luogo gli adepti si recano per raccogliersi in meditazione (foto 6) o per infiggere picchetti votivi in prossimità di un sacro albero (foto 7 e 8).

In occasione di una visita recente abbiamo seguito e documentato un’intera cerimonia. Un gruppo di persone è accovacciato in preghiera prima di compiere il rito (foto 9). Lo compongono l’adepto (l’uomo con i calzoni chiari) accompagnato da due conoscenti e da un prete del vodu Dagbazin (l’uomo a torso nudo). Il prete, intonando una cantilena, comincia il rito versando una sostanza alcolica nel luogo prescelto per la cerimonia (foto 10). A quel punto comincia l’infissione del picchetto con il prete che recita una giaculatoria ripetuta, parola per parola, dall’adepto mentre uno degli accompagnatori tiene in mano il pollo che sarà sacrificato alla fine del rito (foto 11). A quel punto l’adepto infigge il picchetto con l’ausilio di una grossa pietra, accompagnando ogni colpo con un’invocazione (foto 12). E alla fine l’uccisione del pollo a cura del prete perché il sacrificio è parte di ogni rapporto con i vodu. Il sangue degli animali immolati è infatti essenziale a qualsiasi transizione tra gli uomini e gli spiriti sia durante le cerimonie collettive, sia quando gli uomini e le donne si rivolgono ai vodu per negoziare una soluzione ai loro problemi esistenziali e quotidiani.

Lomé, 2012

Testi e immagini di questa storia sono protetti da diritti di copyright del Centro Studi Archeologia Africana e pertanto non possono essere riprodotti (né in toto, né in parte) senza esplicito consenso scritto del CSAA.

Venavi, figure di gemelli del vodu

di G. P.

Sito foto 46

Nel 1995 il mio autista togolese si chiamava Agbou e il suo vice era Raymond. Agbou non sapeva leggere, allo scopo ci pensava Raymond, ma apparentemente sapeva contare bene. Tuttavia, quando per prima volta gli chiesi quanti figli avesse la sua risposta era stata perentoria “ho 7 figli, 4 maschi e 4 femmine”. Ripetuta la domanda, la risposta era stata la stessa. Per Agbou la spiegazione era semplice e scontata: siccome tra i figli c’era una coppia di gemelli (venavi in lingua Ewe) i 2 gemelli contavano per 1 solo in quanto per lui “la loro anima è unica”. Quella era la sua spiegazione, fissa e irremovibile come qualsiasi spiegazione di un mistero.

Da sempre, dovunque nel mondo, la nascita di gemelli è in effetti una circostanza misteriosa che tocca gli uomini nel profondo. In particolare, in Africa, lungo la costa del Golfo di Guinea, la nascita di gemelli è interpretata come un segno soprannaturale dei vodu e quindi oggetto di culto. E siccome il vodu è una religione della presenza e della pratica, ciò implica un rapporto corporeo con le divinità e con i loro segni. In tal senso i vodu esistono perchè esistono gli uomini e le donne che li alimentano attraverso i sacrifici, li accolgono nei loro corpi nel momento della possessione, organizzano le cerimonie, li tramandano curandoli di generazione in generazione e contribuiscono alla loro diffusione e al loro successo. Così i gemelli sono oggetto di un culto specifico che si concretizza nella realizzazione di statuette, le venavi, che la madre o il gemello sopravvissuto custodisce e accudisce per tutta la vita, vestendole, dando loro da mangiare e lavandole di tanto in tanto. A questo fatto si aggiunge la circostanza genetica ed ereditaria che in quella parte dell’Africa la frequenza di parti gemellari è quadrupla rispetto alla media del mondo. Pertanto dall’area degli Yoruba, dove i gemelli sono chiamati ibedji, fino all’area cosiddetta “aja-tado” (che si estende dall’attuale confine tra Bènin e Nigeria – il fiume Ouèmè – fino al fiume Volta e penetra verso nord per una distanza variabile tra i 150 e i 200 chilometri) i gemelli sono una presenza diffusa. Nell’area aja-tado vivono molte popolazioni: i Fon, gli Ewe, gli Ouatchi, i Guin-Mina, gli Aja, gli Anlo, ecc.. Tutte queste popolazioni realizzano le statuette venavi. Le venavi si possono così vedere nelle cerimonie (foto 1), negli altari vodu ad esse dedicati (foto 2), nelle case dove sono conservati in piccoli scranni di legno (foto 3).

In tanti anni di viaggi di ricerca da quelle parti abbiamo raccolto un po’ di venavi e qui ne proponiamo una selezione per area geografica di provenienza:

  • – Anlo (Ghana): foto 4 e 5
  • – Ewe (Togo): foto 6, 7 e 8
  • – Adja (Benin): foto 9 e 10
  • – Fon (Benin): foto 11 e 12

Infine, siccome anche le venavi sono entrate nel mercato antiquario, eccone qualche centinaio ammassate sul pavimento di un commerciante di Lomè (foto 13).

Lomé, 2011

Nota:
Nota: per chi volesse saperne un po’ di più e prendere visione di un ampio repertorio di venavi, si consiglia il volume di Henricus Simonis “EWE – Twin Figures”, Köln, 2008.

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Il tempio vodu di Aloumon Nouhessi

di G. P.

In Togo, ancora oggi non è difficile individuare dove si trova un tempio vodu. Nella capitale Lomè, sia nel centro urbano, sia nei quartieri periferici, nelle cittadine costiere, nei villaggi, lungo le strade, una bandierina bianca, oppure bianca, rossa e nera (i colori del vodu), issata su un’alta pertica indica inequivocabilmente la presenza di un luogo di culto. Un po’ più complesso è farsi un’idea dall’interno, poterlo visitare e fotografare; occorre il consenso del proprietario. L’autorizzazione ad una visita non è scontata, anzi. Non è infatti raro che il sacerdote o la sacerdotessa vodu titolare del tempio necessiti di una preventiva consultazione con gli spiriti che talvolta non viene concessa o viene concessa solo parzialmente.

Sito foto 47

Nell’agosto 2010, ho chiesto ad un amico locale, Albert, di farsi da tramite per poter visitare un tempio vodu che contenesse un altare di Mami Wata. Albert, che è cristiano pentecostale, tra i fedeli della sua chiesa conosce una signora di mezza età, anche lei convertita, che è figlia di una famosa “mamissi” (cioè un’adepta di Mami Wata).

Ottenuta l’autorizzazione partiamo in direzione di Anfoin, un villaggio tra Aneho e Afagnan, non lontano dal confine con il Bènin. Raggiungiamo il tempio: si presenta con un alto muro di cinta dipinto di bianco e decorato all’esterno con tre affreschi murali (foto 1, 2, 3): il primo (quello più vicino alla porta) rappresenta una cavallerizza vestita di bianco nella consueta iconografia del vodu Ablo, il secondo e un’immagine di Mami Wata (la donna con i serpenti), il terzo, palesemente di derivazione indù (Vishnu), rappresenta il vodu Densu. Penetriamo nel primo cortile, è vuoto, solo un grande affresco murale (foto 4) del serpente arcobaleno, il vodu Dangnidohèdo, indica l’ingresso al secondo cortile. Il secondo cortile è viceversa ricco di immagini ma non possiamo soffermarci, la mamissi ci aspetta, torneremo poi.

Eccola, Aloumon Nouhessi (foto 5) è una donna anziana vestita di bianco (è il colore delle adepte di Mami Wata). Ci rendiamo immediatamente conto che è suo, pur se giovanile, il ritratto naturalistico della cavallerizza. Aloumon ci accoglie con grande affettuosità e gentilezza facendoci accomodare nell’ampio locale dove riceve gli ospiti ai quali è immediatamente rivolta la preghiera di una piccola adepta (foto 6). Il salone è lindo come ben si addice ad una sacerdotessa di Mami Wata ma zeppo all’inverosimile di oggetti, quadri, foto, fiori, immagini cristiane e indù, ecc. (foto 7). Nel complesso un fantasmagorico “allestimento” con alle pareti pitture rappresentanti e Mami Wata (foto 8) e Mama Tchamba (foto 9).

Terminati i convenevoli di rito, Aloumon ci racconta la sua storia. E’ nata circa 88 anni fa ad Anfoin ma sua la famiglia è originaria di Pèda, in Bènin. Il vodu di famiglia è Motan uno spirito del fulmine simile ad Heviossou (cioè il grande vodu del fuoco, del fulmine e del tuono che dirige e controlla il cielo). L’altare di Motan però non si trova in questo luogo ma altrove, nell’antica casa di famiglia. Aloumon ci riferisce che questo suo tempio è stato costruito circa 40 anni fa e contiene gli altari di una decina di vodu dei quali è adepta. In tutta la regione lei è una guaritrice famosa oltre che sacerdotessa vodu; per questo, non di rado viene richiesta di consultazioni anche in luoghi lontani, in Bénin e Nigeria.

Siamo ammessi alla visita dell’interno. Comunicante con la sala di ricevimento un solo locale: la stanza da letto della “mamissi” (foto 10). Nell’ampio spazio, appese al muro le collane del vodu e accanto al letto un ricco altare di Venavi (foto 11), cioè le figurine del culto dei gemelli. Usciti nuovamente all’aperto, attraverso uno stretto passaggio ci dirigiamo a visitare gli altari. Come sempre accade nei templi vodu, anche se la grande casa comprende una zona abitativa, l’area dove si trovano gli altari è segregata ed esclusivamente dedicata a luogo di culto. Sui muri gli affreschi rappresentano il vodu Ade, il cacciatore (foto 12) e il vodu Adjakpa, il coccodrillo (foto 13). In due piccoli locali chiusi sono collocati gli altari di Ade (foto 14) e di Mama Tchamba (foto 15). Entriamo in un ulteriore piccolo fabbricato che nel vestibolo contiene un altare di Adjakpa con due enormi coccodrilli in cemento (foto 16) e sulle pareti nuovamente l’immagine del vodu Densu (foto 17) ed altra iconografia di indubbia origine indù (foto 18). Una sequenza di affreschi tra cui un ritratto della figlia Aloumon in abito da militare (e quindi definita “amazzone”), morta in un incidente (foto 19) e un’inquietante immagine di un volto che affiora dalle acque (foto 20). Dal vestibolo si accede a due altari chiusi e bui: il primo del vodu Dan, cioè il serpente, contiene pitture e sculture in cemento di fantastica policromia (foto 21) e finalmente, introdotto da una grande immagine murale (foto 22), fiori e barattoli di cipria (foto 23), l’altare di Mami Wata (foto 24). Negli stretti vicoli dell’isolato un’immagine di Zikpè, il “tabouret” che rappresenta gli antenati (foto 25) e ulteriori immagini di derivazione indù tra cui una rappresentazione di Ganesh (foto 26 e 27). Nei cortili interni sono collocati diversi altari di Egun, il vodù della guerra; sono grandi ammassi di ferraglia di straordinario impatto visivo (foto 28 e 29). Prima di riprendere il percorso verso l’uscita, un grande affresco del vodu Heviossou (foto 30) segnala la presenza di un altare non accessibile. Finita la visita, il figlio di Aloumon Nouhessi che è “bokono”, cioè indovino, ci mostra come si fa la divinazione di Afa (foto 31 e 32).

Lomé, 2010

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“Io, fabbricante di collane vodu”

Intervista di G. P. a Chérita Amoussou (1)

Conosco Chérita Amossou (foto 1) da alcuni anni. Chérita possiede a Lomé (Togo), nel quartiere di Bé, non lontano dal famoso Marché des Fetiches, un grande negozio con prospiciente baracca (foto 2). Nel negozio sono in vendita tutte le tipologie di oggetti e prodotti per i riti vodu: dal vasellame alle statue in legno, dalle bevande alcoliche ai profumi, dagli ingredienti più diversi alle collane. Sono state proprio le collane vodu, esposte in bella mostra, ad attrarre inizialmente la mia attenzione. Dopo molti incontri e dopo aver stabilito un rapporto di fiducia, ho chiesto a Chérita di poter essere intervistata. Prima di acconsentire, è stato necessario un rito che le permettesse di parlarmi liberamente. Nell’intervista, Chérita racconta la sua storia, spiega come è diventata adepta e come ha iniziato a realizzare le collane; infine fornisce un quadro generale della sua visione del vodu.

G. P. Chérita, puoi raccontarmi la tua vita?
C. A. Sono nata a Peda in Benin verso la metà degli anni ’50 del secolo scorso ma non conosco l’anno esatto; in quel tempo era raro che la data di nascita venisse registrata. Ho quindi circa 55 anni. La mia famiglia é però originaria di Glidji, precisamente nel quartiere di Toklo; là c’è la nostra casa ancestrale, i nostri templi, là facciamo i sacrifici e anche la festa di Epe-Ekpe. Sono quindi Guin-Mina. La mia famiglia si era trasferita a Peda perché mio padre era pescatore ed era andato in Benin per lavorare. Da Peda sono venuta a Lomé circa 25 anni fa ma non ricordo l’anno esatto; la mia figlia maggiore, che ora ha 27 anni, è nata a Peda mentre la seconda, che ha 22 anni, e la terza, che ha 20 anni, sono nate a Lomé. Quando mi sono trasferita a Lomé avevo circa 30 anni e facevo il commercio di tessuti e di liquidazioni al Grand Marché. Fino a quel momento non ero una praticante vodu e non lo era eppure mio padre ma nella mia famiglia c’erano stati adepti, in particolare mio nonno che era il responsabile di un tempio di Heviesso. A un certo momento è successo qualcosa e sono stata animata da uno spirito.

G. P. Raccontami com’è andata.
C. A. Ero da poco a Lomé quando gli spiriti vodu mi hanno animata. E’ avvenuto in sogno; si trattava inizialmente di Densu, poi Ablo e poi ancora Adjakpa.

G. P. Come hai fatto a capire che si trattava di spiriti e a riconoscerli?
C. A. Quando uno spirito ti anima bisogna andare da un veggente, lui ti può dire chi è lo spirito. A quel punto il veggente ti introduce nella conoscenza dei primi dieci vodu. E’ così che sono diventata adepta.

G. P. Come avviene l’apprendimento dei segreti del vodu?
C. A. L’apprendimento è lungo, ci vogliono molti anni. Lo spirito che ti anima ti guida un po’ alla volta in questo percorso. Poi, dopo un po’ che ero diventata adepta, è arrivato il dono.

G. P. Di che dono si tratta? Quando è arrivato e come si è manifestato?
C. A. Il dono è arrivato quando stavo a Lomé già da 3 anni. E’ arrivato in sogno: nel sogno ho incontrato una vecchia che sembrava in tutto e per tutto un essere umano ma che in realtà era uno spirito. Era lo spirito di Mama Tchamba che mi diceva di fabbricare e di commerciare la perle del vodu perché questo mi avrebbe aiutato a guadagnare e a vivere. Da allora, da più di 20 anni, faccio le collane di perle.

G. P. Quando ci siamo conosciuti ma hai però detto che sei principalmente adepta di Mami Wata. Mi puoi spiegare meglio e soprattutto mi puoi raccontare un po’ il mondo del vodu?
C. A. Gli spiriti che mi hanno originariamente animata fanno tutti riferimento a Mami Wata. Mami Wata è in un certo senso uno spirito capo, in rapporto con l’acqua, al quale sono legati molti altri spiriti di livello inferiore. L’associazione di spiriti può però variare e dipende da persona a persona: assieme a Mami Wata ci può essere Densu, Egou, Agué e altri ancora. Ad esempio, quelli che chiamiamo i deux fois cinq (2) che sono adepti del vodu Dan, cioè del serpente che è il loro spirito ancestrale, sono anch’essi animati da Mami Wata. Pertanto, i deux fois cinq hanno in stanze diverse delle loro case sia gli altari di Dan, sia quelli di Mami Wata.

G. P. Qual’è il rapporto di Mami Wata con gli altri spiriti ed in particolare con quelli sotterranei?
C. A. Ci sono molti spiriti sotterranei che chiamiamo Tohossou; questi spiriti vivono sia nelle acque profonde sia nel fango. Gli spiriti Tohossou, come ad esempio Adjakpa, sono comunque in rapporto con Mami Wata che resta il più importante perché è in relazione con tutti gli spiriti: con quelli dell’acqua, con quelli della terra e anche con quelli sotterranei.

G. P. Ho notato che nella descrizione di Mami Wata e degli altri vodu che sono in relazione con lei si dice che questi spiriti amano la pulizia e detestano la sporcizia. Come si spiega?
C. A. Sì è vero, noi diciamo “spirito sano in un corpo sano” e per star bene la pulizia è importante. Tra l’altro, tutti vodu utilizzano profumi ed altri prodotti di bellezza.

G. P. Ma nel vodu, oltre a Mami Wata e agli spiriti a lei collegati ce ne sono molti altri. Quanti?
C. A. I vodu sono numerosi, forse 700 o forse anche di più e molti sono in relazione tra di loro. Tuttavia quelli importanti sono 41 (3).

G. P. A proposito di spiriti importanti, mi puoi spiegare come sono legati a Mami Wata?
C. A. Mami Wata è in un certo senso diretta da Heviesso e Zakpata che sono spiriti ancor più importanti di lei.

G. P. Esiste quindi una graduatoria di importanza tra i diversi vodu?
C. A. Sì, lo spirito più importante è Heviesso poi viene Zaptata, poi tutti gli altri.

G. P. E sopra Heviesso e Zaptata cosa c’è?
C. A. Sopra tutti c’è Mawu che è dio e non è un vodu. Mawu è lo stesso dio dei cristiani. Con Mawu gli uomini non hanno una relazione diretta anche se lo invocano affinché i vodu possano intervenire. I vodu sono gli intermediari in rapporto con gli uomini grazie a Mawu. Mawu e i vodu sono però un tutt’uno. Ad esempio, nella regione di Aneho, in un certo periodo dell’anno i vodu lasciano la terra per andare da Mawu e chiedere l’autorizzazione a fare le cerimonie e i sacrifici.

G. P. I vodu possono fare del bene e anche del male?
C. A. Tutti vodu, come Mami Wata e anche gli altri, non fanno mai del male ma proteggono e portano benessere. Sono gli uomini che, attraverso i sorciers e i le pratiche maligne, possono fare del male.

G. P. Ma mi risulta che i vodu possono anche uccidere i malfattori. Come funziona?
C. A. I vodu sono come dei giudici: possono colpire i malfattori, i ladri e gli assassini, ma solo per fare giustizia.

G. P. Ho capito, torniamo quindi alla storia delle perle; come hai fatto a imparare a scegliere e comporre le collane per ciascun vodu visto che sono tutte diverse?
C. A. Nessuno mi ha insegnato. Mi ha guidato Mama Tchamba, tramite l’interpretazione di un veggente che, di volta in volta, mi spiegato il senso di ciascuna perla.

G. P. Qui e nella regione di Aneho, al confine tra il Togo e il Benin, tutti riconoscono che una certa collana è di questo o di quel vodu?
C. A. Sì, è così: gli adepti riconoscono senza alcun dubbio che una collana appartiene a questo o quel vodu. E in occasione delle cerimonie i fedeli indossano le collane di tutti i vodu dei quali sono adepti (foto 3, 4, 5 e 6)

G. P. Ma nel tempo le perle sono cambiate; una volta c’erano le perle antiche veneziane, ora ci sono le perle moderne fabbricate in Ghana o in Cina. Come funziona?
C. A. E’ vero, le perle antiche sono diventate rare e costose; fino a circa 20 anni fa le collane vodu erano fatte di perle antiche, poi i commercianti hausa le hanno comprate, le hanno smontate e rimontate per venderle ai bianchi, così tutti i loro significati sono andati perduti (4). Attualmente, siccome le perle antiche non ci sono più si imitano. Infatti quello che conta è il colore, la sequenza dei colori e i materiali utilizzati. Ad esempio se non si trova più una perla antica di colore rosso se ne utilizza un’altra purché dello stesso colore. Per i nostri scopi non c’è nessuna differenza.

G. P. Come si spiega che tu, adepta del vodu, possa anche fare le collane del gorovodu (5) che sono esposte nella tua bottega?
C. A. Prima di diventare adepta del vodu sono stata iniziata al gorovodu, in particolare sono stata adepta di Alafia. Ma siccome la cosa non funzionava, il prete del gorovodu mi ha detto che dovevo lasciare e diventare adepta del vodu. Ma non c’è nessuna contrapposizione tra vodu e gorovodu. La differenza è come tra i musulmani e i cristiani: se non sei animato da Maometto ma da Gesù Cristo devi andare con lui.

G. P. Cherita, una domanda personale: hai iniziato le tue figlie al vodu?
C. A. Attualmente le mie figlie non rispettano gli interdetti del vodu e per questo non possono essere iniziate. Se in un momento della loro vita lo spirito le animerà, potranno diventare adepte, non tocca a me decidere. Quindi, per il momento le mie figlie sono senza religione ma la più grande ha espresso il desiderio di diventare adepta e di seguire le mie orme.

G. P. Nei nostri giorni il vodu ha seguaci soprattutto tra le persone anziane o anche tra i giovani?
C. A. E’ difficile rispondere, dipende dalle circostanze. Se per esempio una persona ha una malattia grave che non guarisce e avvicinandosi al tempio di un vodu guarisce, vuol dire che quel vodu gli ha salvato la vita e che quindi dovrà diventare adepta.

G. P. Oggi, nella società contemporanea, il vodu è soprattutto praticato dalle persone che non hanno avuto educazione o anche da chi, ad esempio, ha studiato e magari ha fatto l’università?
C. A. Il vodu è nato con il mondo. Nella nostra società tradizionale la maggior parte degli adepti non sono andati a scuola ma ci sono anche persone che dopo aver avuto un’educazione lo praticano per tradizione familiare. Bisogna però stare attenti perché tra questi ce ne sono molti che non sono dei veri adepti e usano il vodu per ingannare la gente.

G. P. Oggi il vodu aumenta o diminuisce?
C. A. Una volta tutti praticavano il vodu; oggi molta gente segue le nuove religioni, come il cristianesimo, ma il vodu ha sempre adepti.

G. P. C’è gente che pratica assieme alle nuove religioni, come cristianesimo e islam, anche il vodu?
C. A. Sì, c’è molta gente che dice di praticare il cristianesimo ma che segretamente fa anche il vodu. I musulmani invece hanno il vodu dentro la loro religione ma lo nascondono. Comunque, il vodu è la religione tradizionale di noi africani, il vodu è per restare fedeli alle proprie origini. Se credi, il vodu ti dà speranza e ti aiuta nelle difficoltà della vita.

Lomé, 2009

Note:
(1) Questa intervista è pubblicata nel catalogo della mostra “Nel nome di Mami Wata, ‘sirena’ del vodu”.
(2) I cosiddetti “deux fois cinq” sono quegli adepti del vodu Dan che presentano sul volto cinque coppie di scarificazioni (in mezzo alla fronte, ai due lati della bocca e sulle due guance).
(3) L’affermazione che per i Guin-Mina i vodu importanti siano 41 è ricorrente ed è anche menzionata nella letteratura.
(4) A Lomé è esistito ed in parte tuttora esiste un fiorente mercato di perle antiche. I collezionisti europei ed americani ricercano tuttavia assemblaggi di perle tutte uguali con l’effetto di indurre il sistematico smontaggio delle collane vodu.
(5) Il cosiddetto gorovodu (o vodu della noce di cola) è una forma di vodu recente, arrivata in Togo verso gli anni ’20 del secolo scorso e proveniente da Ovest, dal Ghana.

Testi e immagini di questa storia sono protetti da diritti di copyright del Centro Studi Archeologia Africana e pertanto non possono essere riprodotti (né in toto, né in parte) senza esplicito consenso scritto del CSAA.

Amebédé Mouleo, ceramista vodu (1)

di G. P.

“Il mio nome è Amebédé Mouleo, sono nata ad Aveve (Togo) verso il 1925-1930”. Amebédé Mouleo (foto 1) è forse una delle ultime ceramiste operanti nell’area di Aklakou (2) ancora in grado di realizzare le ceramiche “danzen” tradizionalmente associate al culto dei vodu delle acque (della laguna e del mare) ed in particolare del vodu Da o Dan, il serpente (3). La sua è una storia da raccontare (4).

Amebédé Mouleo proviene da una famiglia di falegnami e coltivatori, senza alcuna tradizione di ceramisti. All’età di circa 25-30 anni, dopo essersi sposata, ma prima di avere figli, aveva cominciato a produrre vasellame per uso domestico.

L’inizio della produzione di ceramiche rituali è successivo e precisamente risale al periodo in cui era incinta dell’ottavo ed ultimo figlio, all’età di circa 40-45 anni (quindi all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso). “Quel giorno, mentre andavo nei campi di mio padre a coltivare del mais sono improvvisamente svenuta, ho avuto delle visioni e mi sono ripresa solo dopo qualche ora”. Così inizia il racconto di Amebédé Mouleo che continua: “nelle visioni ho visto le immagini dei vodu che da quel momento ho rappresentato nelle terracotte”. Senza alcun insegnamento specifico, ma solo per mostrare quello che aveva visto, Amebédé Mouleo diventa così una ceramista vodu. Quindi una circostanza speciale che potrebbe ripetersi per qualcuno dei suoi parenti ma che potrebbe anche non ripetersi affatto. Amebédé Mouleo ha tuttavia un nipote di circa 17 anni, Aduvi Nicolas, che ha recentemente cominciato a riprodurre oggetti come lei, è già un segno premonitore anche se la qualità plastica delle opere del nipote non è la stessa.

Amebédé Mouleo descrive con precisione tutte le fasi della lavorazione. L’argilla viene da un fosso sulla strada di Aveve; un tempo era lei a raccoglierla direttamente ma ora che è vecchia il compito è affidato ai ragazzi. Alla terra viene poi aggiunta un po’ di sabbia perché l’impasto tenga e l’oggetto non si fessuri durante la cottura. Tutti i giorni sono buoni per lavorare, ma una volta iniziato non bisogna interrompersi, il lavoro va fatto in sequenza unica, dall’inizio alla fine. Per realizzare una figura complessa ci vogliono anche quattro giorni e quindi alla sera l’oggetto incompiuto deve essere accuratamente avvolto in stracci affinché non secchi. Se gli oggetti sono piccoli un’unica cottura comprende diverse figure, se gli oggetti sono grandi se ne cuociono insieme solo 2 o 3. Il forno è una bacinella metallica sul fondo della quale viene deposto uno strato di scorza di noci di cocco (foto 2), si depongono poi gli oggetti (foto 3) che vengono ricoperti da un abbondante strato di scorza di noci di cocco, infine si accende il fuoco e lo si lascia bruciare per circa quattro ore.

Di norma Amebédé Mouleo non realizza le terracotte su propria iniziativa ma prevalentemente su “commessa”. Il meccanismo funziona in questo modo: l’adepto che ha una richiesta o un problema si rivolge al sacerdote vodu e glielo illustra, il sacerdote, a sua volta, si reca da Amebédé Mouleo e le racconta quanto gli è stato riferito, a quel punto occorre attendere che Amebédé Mouleo riceva in sogno le indicazioni del vodu da rappresentare. Questo avviene normalmente entro due o tre giorni e a quel punto è chiaro qual’è il vodu da riprodurre. Qualche volta capita che il problema sia urgente e allora il sacerdote prende immediatamente una figura già pronta, salvo poi attendere che il sogno confermi o meno la scelta.

Le figure prodotte da Amebédé Mouleo non sono dei vodu, lo diventeranno solo dopo che sulle stesse sarà stato compiuto il rito che comprende la raccolta di una serie di erbe e di piante appropriate da posizionare sotto la terracotta ed infine il sacrificio di un animale. Sulle danzen gli animali che possono essere sacrificati sono galline, faraone, al massimo capre, non animali più grandi e importanti.

Negli altari e nell’ambito del culto di Da molti altri vodu possono essere presenti e quindi rappresentati. Per questo la gamma iconografica della produzione di Amebédé Mouleo è assai ampia comprendendo non meno di 20-30 tipologie diverse, tra le quali:

  • – Wedo Da (foto 4)
  • – Adjakpa (foto 5)
  • – Dassa Sakpate (foto 6)
  • – Mami Hohono (foto 7)
  • – Mami Agbadou (foto 8)
  • – Ablo (foto 9)
  • – Mami Wata (foto 10)
  • – Densu Tatono (foto 11)

Da notare che tutti i vodu sono rappresentati sia nella forma maschile sia in quella femminile indipendentemente dal fatto che siano maschi o femmine: così di Mami Wata (la sirena) e del suo cosiddetto sposo Densu Tatono (il personaggio con tre teste) esistono sia la versione femminile, sia quella maschile.

Secondo la ceramista, negli altari di Da tutti i vodu possono coesistere fatti salvi Legba e Mami Lissa che restano fuori.

Amebédé Mouleo realizza quindi anche figure di Legba in terracotta (foto 12); se ne riconosce un esemplare (tra molti in terra cruda) nell’ampio altare all’aperto che si trova sul retro della sua abitazione (foto 13).

E’ interessante rilevare che anche i vodu hanno diversi indici di popolarità: le immagini più richieste sono quelle di Densu Tatono, Ablo e Dassa Sakpate.

Esiste infine una graduatoria di importanza al vertice della quale per Amebédé Mouleo è il vodu Dagu, un grande personaggio in piedi che da tempo la nostra ceramista non realizza più in quanto troppo faticoso. Su nostra richiesta farà però un’eccezione e se la salute glielo permetterà ne avremo un esemplare nei prossimi mesi.

Il mio ultimo incontro con Amebédé Mouleo è del 9 agosto 2007. L’ho visitata in un giorno di pioggia e mi ha accolto con la solita straordinaria gentilezza mentre era intenta a realizzare un’immagine di Mami Lissa (foto 14 e 15). La sua abitazione (foto 16) è costituita da due locali contigui: una stanza atelier ed una camera da letto (foto 17). Accanto al letto in un piccolo contenitore, si possono notare le statuette di due venavi. Amebédé Mouleo è infatti una gemella che conserva da sempre l’immagine sua e della sorella da tempo scomparsa.

Amebédé Mouleo è forse una l’ultima rappresentante di una tradizione di ceramisti vodu un tempo operanti nell’area di Aklakou (5), non si considera un’artista ma interpreta il suo lavoro come un “servizio” alla comunità, non è una sacerdotessa ma una semplice adepta di Da anche se contemporaneamente pratica il gorovodu.

A sentir lei nessuno prima di noi si era tanto interessato al suo lavoro e alla sua storia; lo abbiamo fatto con curiosità ed emozione e, senza pretese di particolare scientificità, mettiamo a disposizione questa testimonianza.

Lomé, 2008

Note:
(1) Un approfondito articolo su Amebédé Mouleo, a firma di Alessandra Brivio, è contenuto nel n° 11/15, 2005/2009 del periodico del CSAA “Archeologia Africana – Saggi Occasionali”.
(2) Nell’area di Aklakou sono installate popolazioni évhé, Ouatchi e Guin-Mina (queste ultime originarie dal Ghana). Amedébé Mouleo è Ouatchi.
(3) I culti del serpente sono pratiche tutt’ora ampiamente diffuse nella regione di confine tra il Togo e il Benin. La questione è in realtà piuttosto complessa e articolata. Esistono infatti almeno tre differenti tipologie di culti del serpente. Una prima, che interessa soprattutto popolazioni Ouatchi e Guin-Mina, è legata al mare, alla laguna e ai vodu relativi. Una seconda tipologia, originariamente proveniente Abomey, dove la popolazione è Fon, è invece correlata ai vodu della terra. Differente dai precedenti e con proprie peculiarità è infine il culto del pitone praticato nell’area di Ouidah (Benin) dove le popolazioni sono soprattutto Mina e Pla. A Ouidah, nella piazza principale, esiste da secoli il cosiddetto Tempio dei pitoni (foto 18), un luogo noto e frequentato anche dai turisti che vogliono sperimentare il brivido di decine di serpenti e la possibilità di farsi fotografare con uno al collo (foto 19). Testimonianze del culto del pitone a Ouidah (che nella toponomastica antica era denominata anche Whida, o Juida) sono riportate e raffigurate nelle antiche cronache europee, come nell’incisione (foto 20) tratta da T. Asley, 1747 e in questo stralcio del 1765 tratto da T. Salmon: La deità principale di que’ di Juida, regno considerabile della Guinea, è un serpente. Questi serpenti sono di una specie particolare, che ha il capo grosso e rotondo, gli occhi belli e ben aperti, la lingua corta appuntata a guisa di dardo. Il motivo della straordinaria venerazione, che hanno i negri di Juida per questi animali, deve la sua origine al seguente fatto, da essi riferito. Essendo apparecchiato il loro esercito per dar battaglia a quelli di Ardra, uscì dall’armata de’ nemici un grosso serpente, il quale ricrovrossi presso i medesimi. Esso non solamente non avea nella figura niente di spaventevole, ma dimostrossi così quieto e domestico, che tutti furono stimolati ad accarezzarlo. Il gran sacrificatore se lo prese tra le braccia, e a vista di tal prodigio tutti i negri si misero ginocchioni, e adorarono la nuova deità: quindi correndo addosso ai nemici con straordinario coraggio, ne riportarono una compiuta vittoria; la quale fu tosto attribuita da tutta la nazione alla virtù del serpente. Fu posto il medesimo sopra un tappeto di seta; gli venne fabbricato un tempio, e assegnato un capitale per il suo mantenimento: ond’è che questo nuovo fetico ebbe in breve tempo la preminenza sopra tutte l’antiche deità. Il primo edificio ch’erasi fabbricato per accoglierlo, tosto si riconobbe per troppo ristretto; e perciò fu risolto di fabricarne un nuovo con ampi cortili e spaziosi appartamenti. Stabilirono ancora un sommo pontefice, de’ sacerdoti, e delle sacerdotesse per il suo culto e servigio. Le feste maggiori, celebrate in onore del gran serpente, sono due solenni processioni, che si fanno subito dopo l’incoronazione del sovrano. Sparso appena l’annuncio di questa solennità per le provincie del regno, accorrer suole ne’ contorni della capitale un sì gran numero di popolo, che sarebbe impossibile cosa il passare tra la città e il tempio, se la corte non desse l’ordine che la turba si dividesse sulla pubblica strada in due file. Giova rilevare che in Togo, lungo il fiume Mono, gli altari di Da normalmente non contengono rettili anche se le storie raccolte parlano di visite notturne di serpenti nelle case degli adepti.
(4) Le informazioni e le immagini di questa segnalazione sono state raccolte dallo scrivente in una serie di incontri e di interviste tra il 2001 e il 2007.
(5) Abbiamo raccolto voci, peraltro non verificate, di qualche altra ceramista ancora operante nell’area di Aveve.

Testi e immagini di questa storia sono protetti da diritti di copyright del Centro Studi Archeologia Africana e pertanto non possono essere riprodotti (né in toto, né in parte) senza esplicito consenso scritto del CSAA.

Sui graffiti erotici di Deir El-Bahari

Gilberto Modonesi

Alcuni anni fa la televisione ha trasmesso un filmato intitolato “L’Egitto di Romer”. In quel video l’egittologo inglese John Romer presentava un graffito che si trova in una tomba rupestre incompiuta (1) scavata nella falesia a destra del tempio della regina (2) Hatshepsut a Deir el-Bahari.

Sotto un testo in scrittura ieratica sono rappresentate crude scene licenziose: i graffiti mostrano un uomo con un vistoso fallo in erezione e una coppia impegnata in un coito da tergo. Nella trasmissione il Romer aveva affermato che in quel luogo i partigiani del re Tuthmosi III avevano dato sfogo al loro livore politico contro la regina rappresentando in modo indecente, e in una posizione del tutto sconveniente per un faraone, il rapporto di Hatshepsut con Senenmut (3), architetto del tempio e titolare di numerose altre cariche di primo piano nell’amministrazione dell’Egitto. Come è noto, Tuthmosi III era associato al trono ma in una posizione di secondo piano dopo che la matrigna e sorellastra Hatshepsut si era auto-nominata faraone.

La storia dei rapporti fra Hatshepsut e Tuthmosi III è controversa e varie interpretazioni si sono susseguite nel corso degli anni da parte di vari egittologi. E’ però assodato da prove archeologiche che la desecratio memoriae di Hatshepsut da parte di Tuthmosi III è iniziata venti anni dopo la scomparsa della regina e non ci sono prove certe di conflittualità tra i due faraoni durante il loro regno in comune.

Nella grotta di Deir el-Bahari i personaggi dei graffiti non sono indicati per nome, quindi si poteva presumere che l’identificazione del Romer derivasse dal testo ieratico scritto sopra i graffiti erotici (4). Invece non è così. Il testo ieratico è stato tradotto da Edward Wente in un articolo dal titolo “Some Graffiti from the Reign of Hatshepsut” apparso nel n. 43 del Journal of Near Eastern Studies (1984), pagg. 47-54 (5). La traduzione rivela che il testo è una comune invocazione di offerta funeraria: “Un’offerta che il re dà ad Amon-Ra, signore dei troni delle Due Terre, a Ra-Harakhti, a Hathor,…”. In fondo al testo si legge anche il nome dell’autore: “Neferhotep, giustificato presso Osiri, generato dal sindaco di El-Kab Reneny e nato dalla Signora della casa Nehi, giustificata presso Osiri”. L’iscrizione non accenna minimamente ai graffiti sottostanti.

Neferhotep era impiegato come scriba nel “tempio dei milioni di anni” di Hatshepsut e il Wente ritiene probabile, in accordo col Romer, che il testo ieratico e i graffiti erotici siano stati tracciati dalla stessa mano, cioè da Neferhotep.

L’articolo del Wente offre altri spunti interessanti cercando di spiegare i graffiti erotici in base ad altre evidenze identificate nella grotta. Innanzi tutto non c’è alcuna prova che l’uomo impegnato nel rapporto sessuale sia Senenmut, anche se il suo nome compare su una parete della grotta. Anche altri nomi sono leggibili sulle pareti della tomba incompiuta, con i rispettivi titoli di primo, secondo e terzo profeta del tempio di Hatshepsut. Sembra che questi personaggi abbiano visitato la grotta poco tempo dopo l’esecuzione dei graffiti senza prendere alcuna iniziativa per la cancellazione di immagini tanto blasfeme.

Un altro scriba ha inserito il proprio nome in un cartiglio. Secondo il Wente, proprio questo graffito potrebbe fornire l’interpretazione delle scene erotiche. Se la femmina Hatshepsut poteva essere re, allora lui, semplice scriba, poteva appropriarsi del cartiglio regale. Analogamente, il copulatore poteva essere una figura anonima utile per parodiare l’assurda pretesa di Hatshepsut di essere re, dando rilievo a una posa sessuale in contrasto con il consueto epiteto di “toro possente” attribuito al faraone.

Stupisce che una azione così dispregiativa nei confronti della titolare di una istituzione sacra quale era la regalità fosse rappresentata in un luogo piuttosto frequentato (la falesia prossima al tempio e con tombe in costruzione), e che un suddito ben riconoscibile ardisse compiere di fatto un atto di lesa maestà

 

Note:
(1) Un ispettore di quell’area ci ha detto che ora l’ingresso della grotta è stato murato per evitare le visite.
(2) Si usa comunemente il termine regina, ma è noto che Hatshepsut fu un sovrano a tutti gli effetti.
(3) E’ diffusa l’ipotesi che Senenmut fosse amante della regina.
(4) Nei volumi che trattano la stia egizia di questo periodo nulla è scritto del testo ieratico e dei graffiti sottostanti.
(5) Nel Porter & Moss il testro ieratico e i graffiti sono attribuiti per errore al Medio Regno.

Testi e immagini di questa scheda sono protetti da copyright del Centro Studi Archeologia Africana e pertanto non possono essere riprodotti (nè in toto, nè in parte) senza esplicito consenso scritto del CSAA.

Spigolature egittologiche

Gilberto Modonesi

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La vera storia del vodu Lossu

di Mamadou Salissou (1)

Sito foto 50

Sono Salissou, quello di sinistra nella foto, qualcuno dice che sono un simpatico filibustiere ma io mi arrabatto per sopravvivere. Per il mio lavoro viaggio, vado nei villaggi, organizzo traffici e ascolto le storie. Eccone una.

In Togo, dalle parti del fiume Mono “c’era una volta, vale a dire 100-150 anni fa, un vecchio che abitava in un piccolo villaggio della regione di Aklakou che si chiama Wopou. Il vecchio con la sua famiglia viveva stentatamente del lavoro dei campi senza nessuna religione che gli fosse di conforto. Un giorno, l’infaticabile contadino mentre se ne andava nella brousse per la raccolta scoprì improvvisamente un grosso coccodrillo che dormiva nel suo campo. Il vecchio scosso e terrorizzato dalla vista del rettile vivente gridò aiuto. All’arrivo di altri contadini il vecchio era svenuto per terra e il coccodrillo era scomparso. Il vecchio fu così riportato nella sua capanna in uno stato penoso. Dopo questo avvenimento il contadino sì ammalò di un male inguaribile. Vedendo arrivare la morte il vecchio decise di raccontare quello che aveva visto nel suo campo ad un guaritore. Il guaritore, a sua volta, invitò il grande feticheur del villaggio per la consultazione del dio Afa. E così attraverso Afa il feticheur si rese conto che si trattava di un vodu che voleva nascere presso il vecchio e che solo attraverso l’installazione di questo nuovo vodu e tutte le cerimonie necessarie il contadino avrebbe ritrovato la salute. Infatti quello che era successo al vecchio, la malattia, i cattivi raccolti, la miseria della sua famiglia, erano segni che il vodu aveva lanciato per poter essere riconosciuto ed adorato. L’installazione del vodu ebbe luogo con il contorno di molte cerimonie e del sacrificio di una testa umana in mare. Dopo l’installazione del vodu il vecchio ritrovò rapidamente la salute e divenne contemporaneamente il feticheur di questo nuovo culto, il vodu Lossu. Da quel momento non ci furono più malattie gravi, nessuna morte improvvisa e sempre buoni raccolti. Il vecchio continuò così a fare sacrifici di teste umane tutti gli anni, fino alla fine della sua vita”.

Oggi questi sacrifici di teste umane sono stati sostituiti da sacrifici di capre e montoni. Tuttavia, negli altari del vodu Lossu si trovano ancora pali che rappresentano coccodrilli che sostengono con le zampe un testa umana a ricordo dei sacrifici che si facevano una volta. E spesso in questi altari si trovano due figure di coccodrilli maschi che guardano verso l’alto e un coccodrillo femmina che guarda davanti e che sorregge sul capo un vaso di terracotta contenente piccoli sassi del mare o del fiume Mono. Nell’anno 2002, nel periodo in cui facevo da guida ed interprete ai ricercatori del Centro Studi Archeologia Africana che stavano conducendo una ricerca sulle popolazioni évhé-Ouatchi, ho scoperto a Wopou un altare del vodu Lossu. Wopou è una piccola località situata nella regione meridionale del Togo, nell’area di Aklakou, in prossimità del fiume Mono. In quel momento l’altare era ancora in funzione, ma non avendo con me la macchina fotografica ne avevo fatto solo uno schizzo (foto 1) e avevo raccolto la storia che ho raccontato. Nel 2004, a seguito del decesso del sacerdote del vodu Lossu l’altare di Wopou fu abbandonato e il tetto crollò (foto 2). A quel punto, con il consenso degli abitanti del villaggio, ho raccolto il materiale prima che andasse disperso. Infatti, nella tradizione degli Evhé-Ouatchi i vodu vivono e muoiono con gli uomini e così accade che se un prete vodu muore e nessuno lo sostituisce l’altare viene abbandonato.

L’altare comprendeva (foto 3 e 4):

  • 3 pali in legno rappresentanti figure antropo-zoomofe con testa di coccodrillo;
  • 1 vaso di terracotta posato sulla testa della figura femminile contenente alcuni sassi e pietre de tonnerre (cioè le pietre fatte dai fulmini durante le tempeste);
  • 2 ciotole di terracotta;
  • 2 bottiglie rituali;
  • 1 scaccia mosche.

Ho poi saputo che l’altare di Wopou è finito in Italia, a Rimini, nella piccola grotta del Museo degli Sguardi, dove tutt’ora si trova e dove è diventato una grande attrazione (foto 5 e 6).

Non ho visto la nuova “casa” del vodu Lossu ma mi dicono che stia bene, che quando fa caldo si ricopre di muffa e quando fa freddo la muffa sparisce. Un giorno magari verrò a visitarlo e gli porterò qualche sasso del fiume Mono. Anche se io sono musulmano e non credo troppo a queste vecchie storie, non si sa mai, è sempre meglio rispettare i vodu.

Lomé, 2007

Nota:
(1) Mamadou Salissou è un hausa, vive a Lomé e si occupa di commercio di mobili coloniali e talvolta di oggetti d’arte. Dal 2001 al 2008 ha collaborato con il Centro Studi Archeologia Africana

Testi e immagini di questa storia sono protetti da diritti di copyright del Centro Studi Archeologia Africana e pertanto non possono essere riprodotti (né in toto, né in parte) senza esplicito consenso scritto del CSAA.